mercoledì 30 giugno 2010

50 anni di solitudine

Oggi il Congo ha festeggiato in grande stile i 50 anni di indipendenza dal Belgio. Celebrazioni che Amnesty International ha giustamente definito ipocrite, tanto più che nonostante il clima di pace apparente seguìto alle prime libere elezioni del 2006, il paese continua ad essere in balìa dello strapotere delle milizie e il rispetto dei più elementari diritti umani resta un'utopia. Il Congo è ancora una terra di orrori e ingiustizie dimenticate su cui nessuno vuole alzare lo sguardo e le celebrazioni di Kinshasa - presenti il re del Belgio, 18 capi di stato africani e il segretario generale dell'Onu - sono apparse comprensibilmente fuori luogo a chi si occupa in concreto di diritti umani.
Nell'ambito di un servizio dedicato a questa ricorrenza, la Radio della Svizzera Italiana ha realizzato un'intervista a Justine Masika Bihamba coordinatrice dell'ong “Synergie de femmes pour les victimes des violences sexuelles” . Trascrivo qui di seguito una parte di questa preziosa testimonianza.

"Sui mille casi di stupro che abbiamo seguito abbiamo ottenuto 200 sentenze ma nessuna è stata resa esecutiva. Mi spiego: prima di tutto c’è il problema della distanza geografica. Nella provincia del Nord Kivu abbiamo solo tre tribunali così le donne devono percorrere centinaia di chilometri alla ricerca della giustizia. Una volta a destinazione devono trovare da dormire, da mangiare e i soldi per pagare la polizia. Sì perché devi pagare per sporgere denuncia, come pure per il sopralluogo. E poi c’è la lentezza giudiziaria. Prendiamo l’aggressione ai miei figli: trattandosi di soldati (gli aggressori, ndr) sono andata al tribunale militare per sporgere denuncia. Mi hanno chiesto soldi. Per l’audizione mi hanno chiesto ancora 35 dollari. Ho fatto denuncia il 19 settembre 2007 ma finora, malgrado le insistenze e le pressioni internazionali, gli aggressori non sono stati arrestati. Perché? Perché sono coperti dai loro capi e quando gli autori (delle aggressioni, ndr) vengono fermati, pagano una mazzetta e tornano in libertà, dopodiché vengono ad aggredirci.
Quando infine arriviamo alle sentenze, la legge congolese prevede che per incassare gli indennizzi bisogna prima pagare: sono le cosiddette "spese proporzionali " da versare allo stato e ammontano al 15-17% dell’indennizzo cui si ha diritto. Per tutte queste ragioni le donne preferiscono un accordo bonale in cui ricevono due o tre capre. Resta l’impunità ma almeno ricevono qualcosa."

domenica 27 giugno 2010

Billy Cobham a Estivaljazz 2010

È stato più piacevole del previsto il concerto di apertura di Estivaljazz 2010. Dopo un avvio un po’ incerto, all’insegna dell’ultimo Miles Davis e della noia, Billy Cobham e band hanno cominciato a divertirsi sul serio e a proporre un jazzrock di ottima fattura, blandamente fusion, felicemente venato qua e là di accenti funky e sonorità caraibiche. Certo niente di nuovo sotto il sole, tutto quello che poteva inventare Billy Cobham l’ha inventato in quarant’anni di irripetibile carriera, documentandolo con una discografia sterminata; e tuttavia, grazie ad una band composta da strumentisti eccellenti, dotati di grande fantasia oltre che - ovviamente - di tecnica, il risultato è stato un concerto veramente godibile, un piacevole ripasso di sonorità forse un po’ datate, comunque all’insegna del buon gusto e dell’equilibrio. Non è così scontato saper tenere assieme le divagazioni caraibiche dello steel drum, una chitarra spesso vigorosamente rockeggiante (l’ottimo Jean-Marie Ecay) e il pianismo elettrico alla Chick Corea ricavandone un linguaggio di senso compiuto. Quel che è certo è che tutto ruota attorno all’implacabile rullante di Cobham, un suono secco, essenziale, che definisce i contorni senza mai risultare invasivo. Peccato, però, che un concerto del genere sia il massimo del jazz che questa manifestazione dal gloriosissimo passato decide di offrire oggi.

Misteri

Stamattina il bluesman si è arrampicato sul tetto, vi ha praticato un pertugio e si è calato in un oscuro mondo di vespe e ragni allo scopo di riparare un guasto elettrico. Io, privata della possibilità di utilizzare lavatrice e computer – i cardini attorno a cui ruota la mia vita domestica – sono rimasta a terra a fare da assistente, cioè a manovrare l’interruttore generale secondo le istruzioni che mi provenivano, sinistre e ovattate, attraverso il soffitto. Mi sentivo un po’ come la celebre Inga di Frankenstein Junior, alle prese con la libreria girevole e la candela da ricollocare al posto giusto; tanto più che il bluesman è riaffiorato alla luce decorato di ragnatele decennali e l’avrei visto bene come comparsa in qualche parodia horror.
Ma la faccenda curiosa è un'altra. Zampettandoci sopra, il mio eroe ha scoperto che il tetto è completamente disseminato di gherigli di noce vuoti: barchette annerite dal gelo e dal sole, piccole ardesie lunari senza peso, tracce della vita segreta che si svolge sopra le nostre teste indaffarate e inconsapevoli.

venerdì 25 giugno 2010

Summer in the country

Subito dopo l’alba sono le voci stridule dei corvi a svegliarci. Appollaiati sulle antenne dei vicini urlano richiami grotteschi. A piccoli gruppi becchettano nel prato tagliato di fresco, rapidi e determinati come sciacalli dopo una strage. Si appostano sotto la finestra, gemono versi quasi felini, torvi e minacciosi. Il cuore comincia la sua stanca marcia tra le rovine del giorno, all’ora in cui la gatta lancia i suoi pianti di guerra e fa scempio delle prede.

mercoledì 23 giugno 2010

Non tutto è perduto

Se al referendum della Fiat a Pomigliano il 36% dei votanti ha detto no, significa che forse non tutto è perduto, che non di solo calcio vive l’operaio italiano. Significa che la classe operaia, quella che ha piena coscienza di sé – e che dunque ha piena coscienza non solo dei propri diritti ma anche dei propri doveri - non è affatto in via di estinzione.
Lucido come sempre Gallino
in questo articolo .

Circola poi
questa lettera indirizzata dagli operai polacchi agli italiani. Non so se sia autentica, ho preso l'abitudine di dubitare di tutto ciò che appare in rete se non proviene da una fonte verificabile. Tuttavia è un documento interessante che rispecchia il clima di tensione e di "guerra tra poveri" che si respira di questi tempi in tutte le fabbriche, non solo alla Fiat.

sabato 19 giugno 2010

In questo preciso istante

ogni singola cellula del mio corpo reclama questo luogo:


giovedì 17 giugno 2010

Mondi alternativi

Ieri sera, mentre rosolavo i broccoli per la pasta, mi è parso chiaro come non mai che il malessere profondo che da qualche mese mi consuma nasce dalla mia incapacità di dare vita – nella mia testa – ad un qualche mondo parallelo e alternativo a questo. Ora, è evidente che il mio malessere ha origini ben più radicate e contorte, ma spingersi nella palude per acciuffare queste radici non so quanto senso abbia, ormai; una volta agguantate le radici, che dovrei farne? Ripulirle dal fango, forse? A questo scopo dovrei reciderle: magari fosse possibile. Diversamente, sempre radici sporche e contorte restano. Mi sento troppo stanca, ho già visto troppo per sperare ancora in una rigenerazione.

Le dipendenze sono il kit di primo soccorso dei depressi. La coazione a ripetere un meccanismo assurdo che tuttavia ha il merito di sminuzzare il dolore. Così mi attacco ai libri come l’alcolista alla bottiglia: è un leggere privo di gusto, un riflesso condizionato, la necessità di compiere un’azione più che la speranza di accedere a un contenuto. Mi attacco ai libri perché con le parole riesco ancora a venire a patti, in qualche modo: le sento alla mia portata, posso ribaltarle, guardarle freddamente da ogni prospettiva.
Dalla musica mi sono autoesclusa: ad eccezione di Peter Gabriel – in loop praticamente dal giorno del mio compleanno – si può dire che non mi concedo altro. Sarebbe troppa bellezza, troppa speranza: non arrivo a sbirciare fin là in alto.

Ma c’è di più: mentre broccoli e cipolle sfrigolavano isterici in padella, ho realizzato con inedita lucidità che l’esercizio fantastico della creazione di mondi paralleli risale praticamente al giorno in cui inizio ad aver memoria di me stessa. Il che significa che è da quando ho aperto gli occhi che quel che vedo non mi piace e sento il bisogno di trasferirmi, almeno mentalmente, in luoghi più accoglienti. Quando si dice che il male di vivere comincia nella culla.

martedì 15 giugno 2010

"unjustified and unjustifiable"

“Manifesti e volantini sventolano in mille direzioni diverse annunciando concerti, incontri religiosi, rappresentazioni teatrali, svendite e altri incontri religiosi. In Brunswick Street una lacera locandina arancione invita a una serata nella Cattedrale-discoteca viaggiante del reverendo Ramsden. È gradito l’abito da sera. Ingresso vietato ai cattolici.
Qua e là, accanto a una finestra o in cima a una torretta, sventola una bandiera; migliaia di stendardi, ma solo cinque colori: verde, bianco, oro, rosso e blu. I due tricolori della discordia.
Sparsi in tutta la città, sui marciapiedi, davanti ai portoni o tra le aste delle inferriate, ci sono mazzi di fiori. In ogni angolo di strada, avvolti in carta trasparente, piccoli giardini artificiali, fiori ancora freschi dai colori vivaci, oppure avvizziti e spenti. Ogni passeggiata in città è cadenzata dal susseguirsi di quei mazzi posati dagli abitanti di Belfast là dove sono stati uccisi i loro concittadini. Quando i petali sono ormai secchi, ci si domanda chi sia morto in quel punto e non si riesce mai a ricordarlo.
È solo in piena notte, dall’alto, che la città sembra un insieme organico, un tutto unico. Quando i suoi abitanti dormono, il disordine diurno si ricompone e, per lo meno geograficamente, la città appare un’entità compatta. Potrete scorgere allora gli anelli di nero basalto che l’abbracciano, i monti, le colline e le distese pianeggianti e vedere nella grande baia ai piedi della metropoli il mare scuro che ne irrora il cuore. […]
Per quanto incantata e sfavillante, Belfast parla chiaro. Le bandiere, le scritte sui muri e i fiori sui marciapiedi parlano chiaro. È una città in cui la gente è pronta a uccidere e a morire per pochi brandelli di stoffa colorata. Questo si aspettano i due popoli che l’abitano, divisi da quattro, o otto, secoli di differenze religiose e civili. Un’assurdità, un rompicapo che avvelena il sangue, una spirale senza fine che impedisce ogni cambiamento.
A notte fonda, però, la fresca brezza che attraversa Belfast sussurra che l’odio è come Dio: non lo potete vedere, ma se combattete in suo nome e credete ciecamente in lui, riscalderà le vostre notti.
Se volgete lo sguardo sulla città (i vostri occhi devono, come i nostri, essere democratici osservatori e imparziali testimoni della realtà), vedrete chiaramente che c’è davvero qualcosa che divide i suoi abitanti: qualcuno questo qualcosa lo chiama religione, altri politica, ma è solo il denaro il vero motivo di differenza e di discordia. Ci potete scommettere, e non perderete il vostro denaro.
Vedrete strade immerse nel verde e strade soffocate dal cemento: immaginatevi vite immerse nel verde e vite soffocate dal cemento. Nei quartieri ricchi e nei sobborghi senza un centimetro quadrato d’erba, i vostri occhi scorgeranno la verità.”

(Robert McLiam Wilson, Eureka Street, Fazi Editore 1999)

mercoledì 9 giugno 2010

Robin Hood di Ridley Scott

Tutto sommato ho fatto bene, ieri sera, ad oppormi alle mie lune e a restare in coda per i nostri biglietti. Isterica e schizzinosa come sono, mal sopportando l’intruppamento in un gregge di ventenni in piena fase preadolescenziale – incessanti risatine sceme, pance scoperte, rotolini debordanti, scollature voraginose, telefonini, telefonini, telefonini, maschietti come solo nei vecchi film di Verdone – sono stata sul punto di girare i miei gloriosi tacchi scamosciati e tornare a casa. Ma sapendo che una volta a casa sarei stata così nervosa da riuscire solo a confezionare un litigio perfetto, ho resistito stoica, pronta al peggio, finché all’improvviso si è miracolosamente dischiuso un altro sportello: grande fu la sorpresa quando scoprimmo che il prezzo del biglietto, in virtù di una promozione a noi ignota, era di soli 3 euro.
Questo Robin Hood di Ridley Scott è chiaramente un filmone di cassetta, ma a me tutto sommato è piaciuto: è esattamente quello che ci si aspetta da un film del genere, in cui dramma e sentimento si alternano con sapienza secondo i classici ritmi che dovrebbero non annoiare lo spettatore (io non mi sono annoiata, ma vicino a me qualcuno pensava di essere nel salotto di casa propria e durante il secondo tempo ha cominciato a sedersi di traverso e a parlare ad alta voce). Grande afflato epico, gli eroi son tutti giovani e belli e i cattivi hanno almeno una cicatrice in volto. Naturalmente il film gronda atrocità medievali ma solo per dire che dopo quasi mille anni le armi sono cambiate ma le atrocità sono le stesse. (Ah, la meravigliosa perfidia di cui sa dar prova il genere umano!).
Bello e ben riuscito il progetto di costruire un retroterra biografico ad un personaggio di cui non si sa praticamente nulla: la concatenazione di eventi fa srotolare il film in un intreccio logico e avvincente.
Notevole lo sforzo di evitare leziosità attraverso una ricostruzione degli ambienti piuttosto realistica.
Peccato che le musiche siano state trattate in modo filologicamente troppo scorretto: melodie improbabili e arrangiamenti surreali. Grave caduta di stile.
Per il resto è tutto un viavai fra storia e leggenda e scindere il vero dal falso è un’inutile perdita di tempo. Giovanni Senzaterra, ad esempio, viene dipinto come un debosciato traditore del popolo: ma non fu lui, storicamente, a concedere la Magna Charta?
In ogni caso Cate Blanchett si conferma una delle donne più affascinanti del pianeta (da notare che in questa occasione rivela un’incredibile somiglianza con Carla Bruni).
Di Russell Crowe non dico niente perché non mi è mai piaciuto, dunque sarei imparziale.
Max von Sydow in un’ennesima lezione di stile.
Ultima noterella: non ho versato neanche una lacrima.

martedì 8 giugno 2010

Eclissi

In questi giorni vivo in stato confusionale, una sorta di sonnambulismo che attutisce il contatto con la realtà, evitandomi violente crisi di rigetto.
Il trasloco psicofisico verso la cosiddetta bella stagione diventa ogni anno più difficile.

È un bene che presto inizino i mondiali di calcio: avremo serate di coprifuoco, il popolo risucchiato dai nuovi televisori digitali come falene abbracciate ai soffitti illuminati. Pregusto sale cinematografiche deserte: niente briciole di popcorn sulle poltrone, niente piedi sugli schienali.

Io sono fortemente tentata di eclissarmi per qualche giorno, almeno fino al giro di boa dell'esame di tedesco. A meno che il bluesman non riesca a trascinarmi in qualche iniziativa di cui valga la pena parlare.

sabato 5 giugno 2010

Scene di ordinaria ipocrisia varesina

Come in una di quelle commedie americane di successo, io e B. ci incrociamo all’ingresso di un negozio. È il negozio in cui ho lavorato per più di dieci anni, è quasi casa mia, insomma, e B., stranamente, si sorprende di trovarmi proprio lì: inciampa nelle solite battute da copione - pensavo giusto di telefonarti, non ho mai tempo ecc ecc – infine, poiché non sa rinunciare a quel ruolo da galantuomo che è precisamente ciò che fa scappare tutte le sue giovani fidanzate, decide di offrirmi un caffè. Naturalmente un bar qualsiasi non va bene, perciò ci incamminiamo verso quello dove lui si sente a proprio agio. La conversazione comincia al largo - il suo lavoro, un incidente in moto – poi il cerchio si stringe su di me e infine l’argomento non può più essere evitato:“Ah, senti, volevo dirti del tuo libro…” dice con l’aria di uno che preferirebbe essere altrove.
Sarà che siamo così impegnati ad attraversare la strada senza farci travolgere, di fatto non riesco a capire se il romanzo gli sia piaciuto o no. E dire che B. è sempre stato un gran lettore, ha lavorato per anni in una importante libreria cittadina e dà del tu a tutti i personaggi che contano nell’ambiente letterario varesino; da uno così, che per di più si ostina a professarsi mio carissimo amico, mi aspettavo un giudizio un po’ più articolato, magari una stroncatura senza rimedio. Ma l’imbarazzo, santo cielo, quello non l’avevo proprio messo in conto.
“Sai, pensavo a quello che mi hai raccontato” spiega arrossendo “che certe parti le hai scritte in ufficio…”
“Precisiamo: mi è capitato di buttar giù degli appunti che poi sgrezzavo a casa, sai com’è, l’ispirazione non conosce pazienza…”
“Sì ma” continua lui ridacchiando paonazzo “pensavo a certe scene…ti immaginavo in ufficio a scrivere certe scene..”
Quali scene, di grazia?, vorrei chiedergli, quali scene? Forse il pompino nella stanza d’albergo a Parigi? O la sega sotto la doccia? Perché è lì che va a sbattere la sua immaginazione, me lo sento. Possibile che di trecento pagine di libro ti siano rimaste impresse solo due mezze paginette di sesso? O è il fatto che si tratti di sesso fra due uomini a farti arrossire così? vorrei chiedergli. Ma scelgo di fare la signora, perciò mi limito a ordinare al banco un caffè macchiato glissando su quel suo imbarazzo preadolescenziale.
“Ma sì” conclude lui soddisfatto di aver trovato una spiegazione plausibile “scrivendo tu razionalizzi i tuoi mostri, i mostri che hai dentro…”
“I mostri? Ma quali mostri, quelli sono i miei personaggi, le mie creature, altro che mostri, e io li adoro, li adoro come figli…”
Se avessi qualche speranza di poter essere capita aggiungerei che a volte mi pento di averle partorite, le mie creature: non avrei dovuto sbatterle in questo mondo di lettori convenzionali.
Per smuovere le acque cerco di riportare la conversazione su un argomento critico più serio: “Ma le citazioni letterarie, secondo te, intralciano il racconto? Ti sembrano eccessive? Funzionano o bucano la storia?”
Ottengo una risposta evasiva che va a parare sulle citazioni musicali presenti nel romanzo:“Ma sai, io non sono tanto aggiornato sulla musica rock…”
E che c’entra la musica rock? Certi nodi cruciali nel romanzo sono affidati a Bach, Ravel, Couperin; per il resto si fa riferimento ad artisti che chiunque abbia passato i trent’anni ha sentito nominare almeno una volta nella vita.
Va bene, ho capito: forse ho capito anche perché B. non riesce a tenersi una fidanzata.
“Mi scade il parcheggio della macchina” taglio corto con un sorriso di circostanza, e quando metto mano al portafoglio dicendo “Lascia, tocca a me”, B. non si ricorda nemmeno che l’invito è partito da lui che se ne sta lì a guardarmi mentre pago e ritiro il resto.

mercoledì 2 giugno 2010

To P.O.

Apprendo da pop life, purtroppo in ritardo, che Peter Orlovsky è morto e subito penso a Hydrogen Jukebox di Philip Glass/Allen Ginsberg, per inciso uno dei cinque dischi che porterei sull'isola deserta e, sempre per inciso, opera di straordinaria attualità. Da riascoltare con cura e ripetutamente.

To P.O.

The whitewashed room,
of a third-rate Mohammedan hotel,
two beds, blurred fan
whirling over yr brown guitar,
knapsack open on floor, towel
hanging from chair, Orange Crush,
brown paper manuscript packages,
Tibetan tankas, Ghandi pajamas,
Ramakrishna Gospel, bright umbrella
a mess on a rickety wooden stand,
the yellow wall-bulb lights up
this scene Calcutta for the thirtieth night -
Come in the green door, long Western gold
hair plastered down your shoulders
from shower: "Did we take our pills
this week for malaria?" Happy birthday
dear Peter, your 29th year.

Calcutta, July 8, 1962

(Allen Ginsberg, To P.O., in Hydrogen Jukebox)

martedì 1 giugno 2010

Exsultate Jubilate!

Il collegamento alla rete è tornato!


Giugno

Sotto un cielo adeguatamente turchino e illuminato ha inizio il mese di giugno e il mio accesso alla rete continua ad essere negato. Ancora ieri un’operatrice antipatica mi ha redarguita per la mia impazienza, e in tono sprezzante ha sottolineato che stare due settimane senza internet “non è poi una cosa tanto grave, no?”
Comunque, dopo due settimane di assedio telefonico fra insulti e blandizie, minacce, ricatti e accuse, dopo l’intervento a pagamento di un tecnico Telecom, dopo ben due accurati controlli (a pagamento, è logico) del mio tecnico di fiducia che ha confermato che pc e modem godono di ottima salute, alla fine di una eterna telefonata che ha rubato un intero sabato pomeriggio al bluesman (io non avrei retto), siamo arrivati alla conclusione che il problema è di natura squisitamente amministrativo-commerciale. In breve, un’anomalia di sistema ha sovrapposto il mio attuale contratto – in essere dall’agosto 2006 - con il precedente contratto “a consumo”. Questo conflitto di informazioni genera un errore che impedisce il mio accesso alla rete. E si tratta di un problema che nessuno riesce a risolvere. Stamattina alle 7 un operatore di buona volontà mi ha anche fornito ulteriori dettagli: la risoluzione del mio problema è stata affidata ad un’impresa che però non si è rivelata all’altezza. Ora il caso è stato affidato ad un’altra impresa che ha il compito di riparare il guasto entro martedì 8 giugno. Ce la faranno i nostri eroi?
Non so, nel frattempo io mi sto attrezzando per cambiare gestore. In ogni caso queste due settimane di “isolamento” mi hanno illuminata sugli effetti collaterali di internet. Mi è più che mai chiaro che la realtà può essere fatta, disfatta e ricreata con le parole. Che la libertà è un’illusione. Che la verità è relativa. Che internet è l’ennesimo trastullo elargito al popolo affinché si distragga, si illuda e non pensi. Che c’è sempre un potere – di natura politica o economica poco cambia – in grado di cancellare la tua libertà sulla base di un capriccio. Che le conoscenze virtuali, i rapporti fra utenti della rete sono una bolla di sapone, sono falsi, inesistenti, si alimentano di parole vuote e danno un contributo importante a tutta questa grottesca alienazione dal reale che ci sta distruggendo.